Michael Gordon Oldfield è nato il 15 Maggio 1953 a Reading, nel Berkshire, Inghilterra, da Raymond Henry Oldfield, medico, e da Maureen Bernadine Liston. Mike è il più piccolo di tre fratelli; prima di lui ci sono la sorella Sally, nata nel 1947 ed il fratello Terry, nato nel 1949. La sua passione per la musica comincia a manifestarsi già all’età di sette anni quando, dopo aver visto in TV il virtuoso Bert Weedon, convince il padre a comprargli una chitarra. La musica diventa ben presto il suo passatempo preferito, nonché il rifugio che gli permette di estraniarsi da una situazione familiare infelice, con una madre alcolizzata e afflitta da crisi depressive. Il difficile rapporto con la madre contribuisce in maniera schiacciante alla creazione di una personalità introversa, che causerà a Mike Oldfied non pochi problemi nella prima parte della sua carriera.
Abbandonate prima la famiglia e poi la scuola, Oldfield comincia a suonare nei club e dà vita al duo folk Sallyangie con la sorella Sally; la coppia inciderà due 45 giri (“Lady Go Lightly” e “Two Ships“) e un album (“Children Of The Sun“) firmando un contratto con Transatlantic Records, che ebbe scarso successo e causò la fine del progetto. Dopo un anno Mike e Sally si separarono andando ogni uno per la sua strada e Mike formò una rock band a 4 elementi nella quale suonava anche suo fratello Terry al flauto. Il gruppo si chiamava Barefoot (Piede Nudo) dato che il gruppo si esibiva a piedi nudi. Mike suonava una Fender Telecaster appartenuta a Marc Bolan. Il gruppo, formato nel febbraio del 1970, non era comunque destinato a durare. Mike arrivò anche a dire che la propria band non era all’altezza. Ebbero un live show, poco tempo dopo, e lui rincarò la dose dichiarando al termine del concerto: “Con questa performance così disastrosa, abbiamo fatto le valige!“. l giorno dopo la band si sciolse.
Ben più importanza ha invece il suo ingresso nel 1969 come bassista-chitarrista nella band The Whole World, formata da Kevin Ayers, in fuga dai Soft Machine, in piena era Canterbury: Mike incide al suo fianco gli studio-album “Shooting At The Moon“, “Whatevershebringswesing“, “Confessions Of Dr. Dream And Other Stories” e il live “June 1, 1974” (ricordiamo anche le raccolte “The Kevin Ayers Collection” e “Odd Ditties“), prima dello scioglimento della band avvenuto nel 1971. Durante la permanenza nella band Oldifield stringe amicizia col tastierista e direttore d’orchestra David Bedford (che avrà un ruolo abbastanza importante nel suo primo scorcio di carriera), viene a contatto con realtà musicali atipiche come i Centipede di Keith Tippett (pianista collaboratore ad esempio dei King Crimson), vede la sua fama di chitarrista crescere e, soprattutto, comincia a pensare a un suo album solista. Della band facevano parte anche il sassofonista jazz Lol Coxhill, il compositore avant-garde David Bedford all’organo, Mick Fincher alla batteria ed ovviamente Mike Oldfield al basso. L’ultima apparizione dal vivo della band fu al “The Temple” di Londra il 10 luglio 1971. Dopo il concerto Kevin sciolse il gruppo. Il contributo artistico di Mike alla band fu davvero speciale.
Un avvenimento cruciale per Oldfield è dietro l’angolo: armeggiando con un registratore prestatogli da Ayers, coprendo la testina di cancellazione, riesce a effettuare delle sovraincisioni che gli permetteranno di fissare meglio le idee per la sua opera prima; la contemporanea permanenza presso gli studi Abbey Road gli consente inoltre di sfruttare un ricco arsenale di strumenti per arricchire le scarne tracce che aveva cominciato a registrare. Pian piano una demo prende finalmente forma – un progetto che, nel corso della lavorazione, assumerà diversi nomi come “Breakfast In Bed” e “Opus One“, prima del definitivo “Tubular Bells” – e Mike lo propone alle varie case discografiche, ottenendo sempre rifiuti, causati dalla dubbia commercialità di un album che presenta svariati minuti di musica atipica e interamente strumentale.
Impossibilitato a registrare il suo lavoro, Oldfield si guadagna da vivere come può: suonando la chitarra per il musical Hair, il mandolino per il musical Some Like It Hot (arrangiamento di David Bedford) e il basso per il cantante soul Arthur Lewis. Ed ecco il colpo di fortuna: al seguito di Lewis, Oldfield è invitato per effettuare alcune registrazioni presso lo studio The Manor, di proprietà di Richard Branson (venditore di dischi per corrispondenza con la sua Virgin Mail Order Record Company) e costruito sotto consiglio degli ingegneri del suono Tom Newman e Simon Heyworth. L’amichevole atmosfera che si respira nello studio smuove il timidissimo Oldfield, che trova la forza di proporre il suo prezioso nastro a Newman e Heyworth. I due rimangono molto colpiti dal suo ascolto e decidono di convincere Branson a pubblicare il disco sul quale Oldfield continua a lavorare in privato, ma che deve restare ancora “congelato” perché Branson (pur essendo anch’egli colpito dal lavoro) non ha né i soldi né l’esperienza necessari per la sua pubblicazione.
Con l’entrata in scena di Simon Draper, un nuovo socio con cui aveva deciso di fondare un’etichetta discografica, Branson si ricorda di Oldfield e lo contatta, anche se in cuor suo è convinto che qualche altra casa discografica gli avesse già soffiato l’affare; invece per sua fortuna Oldfield è impegnato solamente con Hair. Il The Manor viene finalmente attrezzato con tutti gli strumenti necessari e messo a disposizione di Oldfield per una settimana, tempo in cui il musicista inglese (col prezioso aiuto di Newman e Heyworth) riesce a realizzare la prima facciata dell’album (il resto del lavoro verrà completato in successive sessioni di registrazione), per un totale di più di venti strumenti diversi suonati da Oldfield (con pochi aiuti esterni, ad esempio per batteria e cori), più di duemila sovraincisioni effettuate (il nastro finale è talmente usurato che rischia di rompersi) e un tasso di paranoia dei tre altissimo (fu un’impresa titanica ricordarsi il ruolo delle varie tracce man mano che le sovraincisioni erano effettuate). Assieme a Tubular Bells viene registrata anche una session con Elkie Brooks, intitolata “The Manor Live”.
Ricorda Mike: “Durante il periodo con i Whole World avevo registrato una demo-tape di 50 minuti ma non avevo trovato nessuno interessato alla cosa. Il solo David Bedford, anche lui nella banda di Kevin Ayers, sembrava l’unico disposto ad offrirmi un aiuto. L’occasione di lavorare intorno a quel nastro mi venne offerta da Richard Branson che stava impiantando i primi studi della Virgin Records al Castello di Manor. Branson mi invitò l’anno seguente, a lavori ultimati, a Manor e nel settembre del ’72 iniziai a registrare “Tubular Bells”. Ma non godevo di molto credito. Tanto che, dopo una settimana di lavoro pieno, potei usufruire dello studio di registrazione solo durante le pause. Vi ho suonato tutte le notti fino alla primavera dell’anno seguente, accumulando decine e decine di sovraincisioni e lavorando unicamente con Tom Newman, il tecnico del suono. Con lui decisi di introdurre Vivian Stanshall come “maestro di cerimonie” per annunciare l’entrata di ogni singolo strumento nella side one. Vivian ci reputò subito dei pazzi, ed accettò di partecipare all’album e di contribuirvi con una versione surreale di un traditional “The Sailor’s Hornpipe”, che io stesso avevo arrangiato. Vivian piazzò i microfoni nelle varie stanze e corridoi del Manor, collegandoli ad una serie di registratori che venivano attivati senza seguire un particolare procedimento. Registrammo il pezzo una mattina presto, vagando per i vari ambienti come un trio di ubriachi; Vivian sembrava il pifferaio di Hameli… Il risultato venne considerato da Branson troppo bizzarro per far parte del disco di debutto di uno sconosciuto e venne rimpiazzato con un brano strumentale. Poi, in un secondo tempo, abbiamo recuperato il vecchio nastro di Vivian e l’abbiamo inserito come finale della versione remissata di “Tubular Bells”, quella che si può ascoltare su “Boxed”. Anche la versione di “Hergest Ridge” su “Boxed” è sostanzialmente cambiata. Per certi aspetti molto più di “Tubular Bells”. Due anni dopo averla scritta e registrata, ho sentito il bisogno di riprenderla in mano e di modificarla. Per questo ho lavorato per alcune settimane nello studio di registrazione a 24 piste della mia casa nel Gloucestershire. Ero ossessionato dal fatto che la gente potesse trovare le armonie di “Hergest Ridge” troppo ripetitive. Allora ho attenuato gli interventi strumentali meno riusciti e, in alcuni casi come per le snare-drums, li ho cancellati del tutto. Sulla side-two, ad esempio, ho dato alle voci un risalto maggiore ed ho scartato una buona parte degli interventi di chitarra. Ho cercato anche di perfezionare le singole basi ritmiche creando una specie di antecedente all’inizio della seconda parte di “Ommadawn”. Per “Ommadawn”, ma anche per il seguente “Incantations”, mi sono ispirato alla musica elettronica minimale di Terry Riley e di David Bedford e alla musica folk irlandese, greca, africana e dell’est Europa. Per questo motivo, in “Ommadawn”, accanto a 62 sovraincisioni di chitarra, ho voluto inserire le uillean pipes di Paddy Moloney dei Chieftains, le percussioni africane dei Jabula, un bouzouki elettronico, un ricchissimo numero di sintetizzatori e l’arpa, che ho imparato a suonare proprio per quell’occasione. Una moltitudine di strumenti tutti delicatamente e razionamente missati tra loro. Una grande complessità al servizio di una soave semplicità.”
Completate le registrazioni, Branson e Draper si recano al Midam di Cannes (la fiera dell’industria e del commercio musicale) per proporle ai dirigenti di svariate case discografiche, i quali si mostrano interessati solamente al trascurabile “The Manor Live”, ignorando totalmente la ben più meritevole suite. Disgustati dalla situazione, i due si rendono conto che l’unico modo per far vedere la luce al disco è quello di pubblicarlo in proprio.
Tubular Bells (23 maggio 1973), ispirata al Bolero di Ravel, diviene così la prima pubblicazione della neonata label Virgin (numero di serie V2001), acclamata dai critici (seppur non inquadrabile in nessun genere) per il suo carattere rivoluzionario è uno straordinario successo di pubblico, dapprima solo inglese (primo posto in classifica per 15 settimane) e poi anche europeo, complice anche l’inclusione dell’intro del disco nella colonna sonora del film “L’Esorcista“. Tubular Bells resta tuttora il disco più venduto dell’intero catalogo Virgin, nonostante la presenza in tale etichetta di altri colossi come Genesis, Peter Gabriel o Simple Minds.
Da qui comincia la favola di Oldfield. Un successo meritato per un disco complesso ma non di difficile ascolto, in cui il suo creatore ha sempre creduto ciecamente: un susseguirsi di frammenti musicali, creati dalla sovrapposizione di strumenti suonati perlopiù dallo stesso musicista inglese, alcuni entrati di diritto nella storia della musica. Su tutti, il già citato tema d’apertura, oppure la conclusione della prima parte, ove il maestro di cerimonie Viv Stanshall annuncia l’ingresso dei vari strumenti, i quali si vanno via via a sovrapporre e a preparare il terreno per l’ingresso trionfale delle Campane Tubolari, che senza una vera e propria soluzione di continuità costituiscono circa 50 minuti (divisi in due parti) di musica travolgente, evocativa e ricca di cambi di umori. Significativa (e per quei tempi assolutamente inusuale) l’assenza per quasi tutto il disco di batteria e di parti cantate, presenti solo in uno spezzone della seconda parte denominato “The Piltdown Man Section“, dove Oldfield, dopo essersi scolato mezza bottiglia di whisky, esterna tutta la sua frustrazione al mondo intero con i suoi grugniti da uomo delle caverne. Scherzosa è anche la conclusione dell’opera, affidata al traditional “The Sailor’s Hornpipe” (per intenderci, la sigla dei cartoon di “Braccio Di Ferro”).
Opera geniale, ponte tra il progressive rock e la new age di due decenni dopo, Tubular Bells è un album che non deve mancare in nessuna CD-teca che si rispetti.
Oldfield non era preparato a quel successo che tanto aveva desiderato: lo stress post-registrazione e il suicidio della madre lo portano, in preda a allucinazioni e attacchi di panico, a rifugiarsi nell’alcool e nell’LSD. In questo stato abbastanza precario, e sotto le continue pressioni di Branson che voleva sfruttare la scia del successo del precedente disco (e quindi pretendeva un nuovo album in tempi brevi), Oldfield comincia a lavorare al successore di Tubular Bells. Nel frattempo, c’è anche la collaborazione con Robert Wyatt per il suo capolavoro, “Rock Bottom” (1974), in cui Oldfield suona la chitarra da par suo.
Subito dopo la realizzazione dell’album Mike dichiara: “E’ stato un modo per nascondermi dalla realtà. Avevo così tanta paura della vita, delle persone, di me stesso, di esistere nell’universo. L’unica cosa che avesse un senso per me era il posto che avevo creato per me nel mio mondo di musica… la musica era diventata così importante per me, che dall’età di 8 anni fino a quando ho composto Tubular Bells non ho fatto altro che scrivere musica, tenendo quaderni, componendo cose, e Tubular Bells è una combinazione dell’intera mia infanzia e adolescenza raccontata con la musica, musica, musica.”
In Hergest Ridge (1974), i tratti distintivi del suo predecessore non vanno persi: suite divisa in due parti (che prende il nome dalle alture situate in prossimità della sua nuova casa), la consueta grande quantità di strumenti suonati dal nostro, assenza di batteria, voci usate come uno strumento, e così via. Il sound di Hergest Ridge è meno “misterioso” rispetto al predecessore, e Oldfield è molto bravo a evocare con queste nuove composizioni il verde delle praterie inglesi. Il disco si rivela molto gradevole da ascoltare, ma nel contempo sono molto rare le situazioni in cui riesce a sorprendere l’ascoltatore (una di esse è senza dubbio la sezione centrale della seconda parte, in cui, sebbene un po’ troppo tirato per le lunghe, troviamo un assalto sonoro di indubbio fascino, condotto da novanta chitarre sovraincise).
E’ comunque di nuovo successo, a dimostrare che Mike Oldfield non è un fenomeno passeggero.
Il 1975 vede l’uscita di due lavori di Oldfield: per primo abbiamo la versione orchestrale di Tubular Bells (ad opera della Royal Philarmonic Orchestra, con arrangiamenti e conduzione ad opera di David Bedford), dove l’unico strumento suonato da Oldfield è la chitarra, e poi il suo terzo album vero e proprio, dallo strano titolo di Ommadawn (una parola senza senso, che più o meno significa “lo stupido” in gaelico). Nel disco è riproposto l’ormai usuale schema della suite strumentale divisa in due parti, però qualche variazione comincia ad affiorare: l’arpa assume spesso un ruolo di primo piano (in particolare nella sezione introduttiva, che rivaleggia per bellezza con quella di Tubular Bells), cominciano a manifestarsi influenze celtiche (ospite Paddy Moloney dei Chieftains), sono presenti le percussioni africane ad opera dei Jabula e, a conclusione dell’opera, troviamo un ottimo pezzo cantato (“On Horseback“). Più variegato di Hergest Ridge e meno frammentario di Tubular Bells, Ommadawn è uno dei punti più alti della produzione Oldfieldiana.
Oldfield farà poi uscire il singolo natalizio “In Dulci Jubilo“. Intanto, il suo carattere chiuso ha il sopravvento e lo porta a ridurre al minimo le interviste e a non esibirsi affatto dal vivo.
Il 1976 vede l’uscita di Boxed, cofanetto con inediti che raccoglie i primi tre album remixati in versione quadrifonica. Seguono il singolo natalizio “Portsmouth” di buon successo; il ritorno al live nella rappresentazione di “The Odyssey” di Bedford e due singoli di scarso successo: l’ouverture del “Guglielmo Tell” di Rossini e un traditional inglese, “The Cuckoo Song“.
In pratica, quello che stava facendo Mike era ricaricare le sue “batterie”, affidandosi a Exegesis, una terapia che consente di affrontare la proprie paure e potenziare i lati più positivi della propria personalità. Parallelamente alla terapia, Oldfield si dedica alla composizione del nuovo disco Incantations (1977), un doppio album che propone un’unica suite divisa in quattro parti ove il nostro, strumentalmente parlando, non assume quel ruolo di primo piano avuto negli album precedenti, preferendo utilizzare soprattutto archi, flauti, vibrafono e cori ad opera di ospiti. Compositivamente l’album è ad altissimi livelli e si differenzia dai precedenti, oltre che per le sonorità, anche per l’ampio uso di tempi dispari (caratteristica abbastanza inusuale per Oldfield); la sua ampia durata purtroppo non lascia l’album privo di tempi morti, ma fortunatamente tali momenti sono piuttosto rari e comunque ci si passa volentieri sopra di fronte ad esempio alla meravigliosa “Part I” (dove l’arte Oldfieldiana quasi raggiunge la perfezione assoluta, e dove le percussioni africane dei Jabula creano un tappeto ritmico ineguagliabile) oppure di fronte al finale della “Part IV“, pura magia tradotta in musica. Ospite speciale è Maddy Prior, vocalist degli Steeleye Span, che è protagonista di un (troppo, troppo lungo) intervento vocale nella seconda parte, ove vengono cantati versi tratti dal poema di Longfellow “Song Of Hiawatha”).
Purtroppo Incantations, nonostante la sua stupefacente qualità, ha l’unico difetto di essere pubblicato in piena esplosione punk; pertanto viene denigrato da molti come un’opera inutilmente conservatrice, ottenendo un successo molto inferiore ai precedenti.
Oldfield ormai era uscito dalla sua crisi personale: rilascia fiumi di interviste, incide un bel singolo di matrice “disco” (“Guilty“), si concede un matrimonio-lampo con Diana Fuller, figlia del leader di Exegesis (dopo un mese i due erano già separati), e soprattutto si lancia in un grandioso tour mondiale, con al seguito una truppa di circa un centinaio di persone tra musicisti e tecnici. Nonostante i “tutto esaurito” in quasi tutte le tappe, il tour si rivela fallimentare dal punto di vista economico. Così, per recuperare qualche soldo, Oldfield pubblica l’ottimo doppio live Exposed (contenente Incantations, Tubular Bells e Guilty) e dopo qualche mese il nuovo album da studio, Platinum (1979).
E’ indubbiamente un disco di rottura col passato, che mostra la volontà di Oldfield di rinnovarsi e di non addentrarsi più in complessi lavori strumentali (una formula che aveva cominciato a mostrare la corda, commercialmente parlando). Per la prima volta, troviamo la struttura suite + pezzi brevi che ritroveremo anche in molti degli album successivi. La suite (nonché title-track) è il capolavoro del disco: orecchiabilissima, trascinante, nonché molto, molto più facilmente assimilabile per l’ascoltatore medio rispetto alle precedenti composizioni e con tanto di sezione fiati e efficaci arrangiamenti corali. Notevolmente inferiore qualitativamente è la seconda facciata: buone tracce sono l’atmosferica “Woodhenge” (dove è il vibrafono di Pierre Moerlen dei Gong a dominare) e la tirata “Punkadiddle” (un must per le esibizioni dal vivo), mentre potevano essere tranquillamente escluse dal disco la melensa “Into Wonderland” (curiosità: la maggior parte dei CD in circolazione riportano questa track come “Sally“, un pezzo dedicato da Mike alla sua nuova fidanzata che fu rimosso – forse per la sua scarsa qualità – all’ultimo momento dalla scaletta del disco) e la cover di “I Got Rhythm” di Gershwin: il frizzante pezzo che siamo abituati ad ascoltare di solito, viene inspiegabilmente stravolto e trasformato in una sdolcinata ballad, con scarsi risultati.
Sebbene criticato per la sua commercialità e per la semplicità di fondo che portò molti ad accusare Oldfield di involuzione, Platinum resta un disco meritevole di attenzione e molto indicato per chi si addentra per la prima volta nel mondo Oldfieldiano.
Riguardante Platinum Oldfield dichiara: “Ho sempre immaginato la chitarra come una sorta di creatura musicale parlante… non ci sono molte persone al mondo che possono far parlare una chitarra. La differenza tra me e le persone che nella loro musica citano altri artisti è… che io cito me stesso. Ecco perché ho intitolato quest’album Platinum, in parte per scherzare – ma anche perché a ‘Mike Oldfield piace il [disco di] platino’“.
A Platinum, succede un singolo natalizio, “Blue Peter“, un nuovo tour con formazione estremamente ridotta e il nuovo QE2 (Queen Elizabeth 2nd), un disco di pura transizione che funziona a intermittenza (malgrado la presenza di musicisti come Phil Collins e Maggie Reilly, che conosceremo meglio nei prossimi dischi), dove Oldfield mette da parte la sua consueta vena sperimentatrice, e che appare come una mera (e fiacca) prosecuzione del precedente Platinum. Quest’ultimo particolare si nota soprattutto nei due buoni pezzi iniziali, “Taurus I” e “Sheba“, caratterizzati anche da un largo (e inedito per Mike) uso del vocoder; si prosegue con “Conflict“, discreto frullato di Bach (!) percussioni, chitarre distorte, influenze folk. La trascurabile “Arrival” (Abba) è la prima cover del disco, mentre decisamente migliore si rivela essere l’altra rivisitazione, “Wonderful Land” degli Shadows (gruppo molto amato da Oldfield nella sua adolescenza). Reminescenze di Platinum affiorano anche durante l’ascolto della discreta “Mirage“, con il suo impetuoso vibrafono, mentre decisamente piatte sono le atmosfere bucoliche della title-track. Ordinarie, infine, le conclusive “Celt” e “Molly“. In sintesi, un disco non malvagio ma comunque privo di quei guizzi a cui il nostro ci aveva abituato in precedenza. Forte del successo dell’album, comunque, Oldfield passa buona parte del 1981 in tour (festeggiando anche la decimilionesima copia di Tubular Bells venduta) e preparando il nuovo disco.
In questo periodo Mike dichiara: “Io in realtà non mi siedo e dico: ‘Bene, ora inizio a comporre qualcosa.’ Mi piace suonare le cose. Suono il pianoforte, oppure la chitarra, improvvisando sempre. Non credo che suonerei mai qualcosa che non mi piace. Mentre suono, se trovo qualcosa che penso sia bello, lo suono di nuovo, e se mi sembra sufficientemente buono lo registro su nastro. Dopo penserò a cosa mi potrà servire. Una cosa tira l’altra e alla fine trovo un altro pezzo, come nella costruzione di un edificio, metto mattone su mattone, finché non è tutto finito.”
Five Miles Out (1982) è un lavoro dalla struttura molto simile a Platinum, vale a dire una suite sul primo lato e pezzi più brevi sul secondo. Si tratta di un disco con pochissimi momenti di stanca, caratterizzato (come l’album precedente) da un suono “da band”, con l’usuale certosino lavoro di sovraincisioni di Oldfield posto un po’ in secondo piano. In apertura troviamo il secondo capitolo della trilogia di “Taurus”, ed è subito magia: un continuo susseguirsi di riuscitissimi temi (affidati di volta in volta alla chitarra di Oldfield, alle uillean pipes dell’ospite Paddy Moloney e alle delicate vocals della fantastica Maggie Reilly) che mantengono sempre viva l’attenzione dell’ascoltatore per quasi 25 minuti. Si procede con “Family Man“, un’ottima pop-song cantata dalla Reilly, che come singolo inizialmente non fu un grande successo, ma l’anno dopo la cover version realizzata da Hall & Oates divenne un hit da top-ten in America. Terzo brano del disco è “Orabidoo“, una mini-suite ove si susseguono una dolcissima intro di vibrafono, un tema al vocoder su un robusto tappeto percussivo (piacevole all’inizio, ma che diventa subito stancante) e fughe tastieristiche d’effetto, prima di un finale molto pacato. Concludono il disco, sempre ad alti livelli, “Mount Teidi“, brano strumentale dalla bellezza disarmante dominato da splendidi ricami di synth, e la title-track, un brano di breve durata (ispirato da un incidente aereo vissuto in prima persona da Oldfield stesso) che riprende alcune linee melodiche già ascoltate su “Taurus II” arricchendole con efficaci intrecci vocali (all’occorrenza filtrati dal vocoder) tra la Reilly e Oldfield stesso. Disco consigliatissimo, che ebbe il giusto successo e portò nuovamente Mike in giro per il mondo in tour.
Oldfield, riguardo a quest’album dice: “Per scrivere il testo di una canzone devi avere qualcosa da dire. Beh, questa volta ho avuto qualcosa da dire sugli aerei. L’album non parla d’altro. Ogni volta che salgo su un piccolo aereo qualcosa di terribile succede. Un motore si arresta, si va dentro un temporale o tempesta di neve, o siamo circondati dalla nebbia.”
Il successivo Crises (1983) è un altro bel frutto della rinnovata vena creativa di Oldfield: un ottimo compromesso tra qualità e commercialità, aspetto che non mancò di suscitare forti critiche da parte della stampa del settore. La struttura dell’album è invariata rispetto al precedente: suite + brani brevi. La suite è la title-track: un pezzo perlopiù strumentale (tranne qualche sporadico intervento cantato ad opera dello stesso Oldfield), sempre su altissimi livelli compositivi, dove i synth di Oldfield, innamoratosi in quel periodo del Fairlight, una potentissima workstation digitale, e il terremotante drumming del veterano Simon Phillips (già con Who, Toto e tanti altri) creano una miscela sonora esplosiva. Anche i pezzi brevi sono tutti di ottimo livello: si tratta di quattro brani cantati (da tre diversi vocalist) e uno strumentale. Si parte con il celeberrimo hit-single “Moonlight Shadow“, cantato da Maggie Reilly, una delle migliori pop-song di tutti i tempi, la cui indubbia orecchiabilità si sposa con un’esaltante prestazione chitarristica di Oldfield, autore anche di un ottimo arrangiamento (geniale l’uso dell’eco sulla voce). L’altrettanto angelica (nonché storica) voce di Jon Anderson degli Yes è chiamata a interpretare il successivo “In High Places“. Torna la Reilly per “Foreign Affair“, altro celebre hit-single, forse un po’ monocorde ma dall’arrangiamento geniale. Penultimo brano è lo strumentale spagnoleggiante “Taurus III“, in cui Oldfield può sia sfoderare tutta la sua maestria chitarristica, sia divertirsi a sovraincidere tracce su tracce di chitarra, fino a creare in alcuni frangenti del brano un vero e proprio “muro di suono”, che metterà a dura prova il vostro impianto stereo. Chiude il disco l’aspra “Shadow On The Wall“, ennesimo hit-single interpretato stavolta da Roger Chapman (Family), ove le sue arcigne vocals vanno a braccetto con altrettanto dure schitarrate.
All’uscita del disco segue un mini-tour, conclusosi con la celebrazione del decimo compleanno di Tubular Bells.
Anche il successore del fortunatissimo Crises, vale a dire Discovery (1984), è un buon album, che si attiene allo standard qualitativo dell’Oldfield a cavallo tra orecchiabilità e sperimentazione, e che presenta la consueta attitudine ad accontentare sia i fan di vecchia data con la consueta suite (posta stavolta in chiusura del disco), sia il pubblico attratto dalle sue produzioni pop. Abbastanza palese è il tentativo di sfruttare la scia del successo del precedente album. Degni di nota lo scarso numero di musicisti presenti (oltre al nostro factotum troviamo soltanto Simon Phillips alla batteria e i vocalist Maggie Reilly e Barry Palmer) e la spiccata vena pop che caratterizza un po’ tutto il disco. Il magico timbro della Reilly è utilizzato in tre pezzi: la stupenda “To France” (il cui magistrale riff portante è utilizzato anche nell’altrettanto valida “Talk About Your Life“) e la più movimentata “Crystal Gazing“. Il potente timbro di Palmer ben si adatta invece a “Poison Arrows” (ascoltare il muro di chitarre innalzato da Oldfield a metà pezzo), alla title-track (dalla trascinante linea vocale e con un guitar-solo da antologia) e alla ballad “Saved By A Bell” (forse l’unico pezzo sottotono del disco). Sentiremo duettare i due cantanti solo nell’ottimo “Tricks Of The Light“, il brano più tirato del disco. Ottava e ultima traccia è la gioiosa “The Lake“, l’immancabile suite strumentale, stavolta molto più breve del solito (12 minuti), ma ricca delle consuete suggestioni. In definitiva, Discovery rappresenta l’apice della creatività Oldfieldiana negli anni Ottanta, prima di una fase creativa discendente.
Il secondo disco pubblicato da Oldfield nel 1984, The Killing Fields, è la colonna sonora dell’omonimo film, uscito in Italia col nome di “Urla dal silenzio“. Pur non ai livelli delle vette della produzione del musicista inglese, il disco non è malvagio e mostra Oldfield alle prese con partiture perlopiù orchestrali (mettendo molto da parte chitarre e synth), ma è afflitto dallo stesso problema che colpisce gran parte delle altre soundtrack in circolazione: una volta slegati dalle immagini che dovrebbero accompagnare, gran parte dei pezzi perdono di forza e conducono a un ascolto svogliato. Qualche pezzo degno di nota comunque c’è: il sound quasi industrial di “Evacuation“, le intense “Pran’s Theme 2” e “Pran’s Departure” e le conclusive “Good News” e “Etude” (quest’ultima con un geniale arrangiamento di flauti e marimba – sicuramente il pezzo più Oldfieldiano del disco). Un disco comunque da consigliare solo ai fan più accaniti.
Il periodo 1985-86 è abbastanza tranquillo: esce la succosa antologia The Complete Mike Oldfield (ricca di brani usciti esclusivamente su singolo), lo stupendo video singolo “Pictures In The Dark“, frutto della nuova passione di Mike per l’aspetto video della creazione musicale che fungeva da preludio per il progetto di un video album (“The Wind Chimes“) da far uscire esclusivamente in VHS e Laserdisc; infine nel 1986 esce un nuovo singolo in compagnia di Jon Anderson, “Shine“.
Dopo i vertici qualitativi toccati con Discovery, Oldfield comincia a mostrare un preoccupante calo qualitativo con Islands (1987), inferiore anche al successivo, tanto criticato Earth Moving. Colpa del crescente malcontento del compositore inglese verso la sua casa discografica (in particolare nei confronti del patron Richard Branson)? O l’amore per la sua nuova compagna, la biondona norvegese Anita Hegerland (degno rimpiazzo di Maggie Reilly alle vocals), ha avuto effetti nefasti sulla sua creatività? Ai posteri l’ardua sentenza. Da salvare in questo disco c’è ben poco: alcuni sprazzi di luce si intravedono nella suite “The Wind Chimes” (brano recuperato dal video-album menzionato in precedenza, che funziona “a intermittenza”: alcuni momenti memorabili si alternano ad altri invece loffi e autocelebrativi), nella gelida atmosfera di “North Point” (forse l’unica traccia del disco all’altezza delle migliori produzioni di Oldfield) e nel riff di “Magic Touch“. Oltre a questo abbiamo dei “poppettini” da FM frutto di ispirazione scarsa (“When The Nights On Fire” e “Islands” – vocals ad opera di Bonnie Tyler) o nulla (“Flying Start“, “The Time Has Come“). Ad affossare ulteriormente il tutto abbiamo una produzione plasticosa, veramente deludente rispetto agli standard Oldfieldiani, che purtroppo ritroveremo anche nel disco successivo.
Ed eccoci arrivati al disco più criticato e odiato in assoluto tra tutta la produzione di Oldfield: Earth Moving (1989). In effetti il suddetto astio non è del tutto ingiustificato: Oldfield manda (forse volutamente) in letargo la sua creatività per sfornare, sotto le pressioni della Virgin smaniosa di altri hit-single, un disco pop al 100 per cento, dove buona parte dei pezzi risultano piatti sia dal punto di vista melodico sia per quanto riguarda gli arrangiamenti. Fortunatamente non è tutto da buttare: la title-track è dominata dalla splendida voce di Nikki Bentley; “Innocent” si imprime nella testa dell’ascoltatore al primo colpo, grazie a una melodia ruffiana al punto giusto e alla graziosa interpretazione della Hegerland; “See The Light” è il brano più energico del disco e ricorda “Discovery“, dall’album omonimo. Ma il brano da antologia è “Blue Night“: Mike Oldfield + Maggie Reilly + atmosfere soft e acustiche + una melodia dolcissima = applausi a scena aperta.
In soli due anni Oldfield passa da un estremo all’altro. Se infatti Earth Moving era un disco dichiaratamente commerciale, per nulla impegnato e privo di suite, Amarok (1990) è senza dubbio il disco più sperimentale mai pubblicato dal compositore inglese: contemporaneamente un regalo ai fan di vecchia data e uno sberleffo alla Virgin. Praticamente impossibile descrivere un album come questo: un’unica suite di ben sessanta minuti esatti dove genio, sregolatezza e (soprattutto) imprevedibilità vanno a braccetto, dove pacate influenze folk inglesi (pensiamo ad esempio ad Ommadawn) si vanno a scontrare con travolgenti parti di flamenco e misteriose atmosfere africane, che riportano un po’ a Incantations; dove l’usuale arsenale sonoro di Oldifield è arricchito da “strumenti” come ad esempio cucchiai, bicchieri o pezzi di un modellino di un aereo, dove il mitico Uomo Delle Caverne e Margaret Thatcher (ovviamente imitata ad arte da un’attrice) effettuano improvvise azioni di disturbo, dove Oldfield invia segnali in codice Morse, in cui prima lancia un S.O.S. e poi manda letteralmente a quel paese l’ormai odiatissimo Richard Branson, patron della Virgin, dove… In sintesi, un capolavoro, destinato però soprattutto ai fan più attenti e vogliosi di sperimentazione, in quanto molti potrebbero essere spiazzati dalla monoliticità della proposta, nonché dalle sue “stranezze”. D’altronde, lo stesso Oldfield sulla back-cover del disco afferma: ” AVVERTENZE PER LA SALUTE: Questo disco può essere pericoloso per la salute dei sempliciotti duri d’orecchio” (cloth-eared nincompoops). Se soffrite di tali disturbi consultate immediatamente il vostro medico.“.
Da segnalare una curiosità: aluni temi musicali presenti sull’album Amarok hanno come fonte ispiratrice frammenti dell’album “Children of the Sun” dei Sallyangie (1969).
Con Heaven’s Open (1991), Oldfield torna su sentieri più normali, dopo l’estremizzazione attuata nel precedente album. Si tratta di un disco che all’epoca venne visto da Oldfield come una vera e propria liberazione, dato che era l’ultimo previsto dal contratto con la sanguisuga Virgin, e che, pur essendo a buoni livelli compositivi, è passato ingiustamente inosservato (come pure era accaduto per il suo magnifico predecessore Amarok). Per l’ultima volta (finora) ritroviamo la struttura suite + canzoni che ci ha accompagnato per diversi album: infatti Oldfield per le successive produzioni ritornerà alle sue origini, concentrandosi su opere prettamente strumentali. Curioso, inoltre, è il fatto che il disco sia uscito a nome “Michael Oldfield”: esistono diverse congetture per questo fatto, ma nessuna è mai stata di fatto confermata – l’autore considera questo disco indegno di comparire a fianco degli altri usciti a nome “Mike Oldfield”? Oppure lo considera fin troppo personale e quindi lo ha firmato col suo “vero” nome (Michael appunto)?
Se comunque la prima ipotesi fosse esatta, Oldfield avrebbe ben poco da vergognarsi. I brani pop (5 in tutto) sono molto ben composti e arrangiati – niente male davvero per un disco che si dice sia stato preparato in fretta e furia –, presentano delle liriche molto autobiografiche incentrate perlopiù sulle sue frustrazioni artistiche degli ultimi anni (inequivocabili titoli come “Make Make” oppure “Mr. Shame“) e, soprattutto, sono cantati dallo stesso Oldfield con risultati non malvagi, grazie anche a sei mesi di lezioni di canto presso l’insegnante di illustri colleghi come Peter Gabriel o George Michael. Anche la produzione è ottima e grazia soprattutto la schizoide suite finale, “Music From The Balcony” (ascoltare la batteria – suonata da Sua Maestà Simon Phillips – per credere), che alterna inconfondibili sezioni atmosferiche a improvvise esplosioni di energia.
Oldfield è finalmente libero dalla Virgin e, come per una sorta di scaramanzia, decide di inaugurare il suo contratto con la WEA con il seguito del suo più grande successo commerciale (nonché primo disco inciso per la sua vecchia casa discografica). Tubular Bells II (1992) è un disco di cui il compositore inglese aveva annunciato da tempo la pubblicazione ma che, certo del successo che avrebbe ottenuto, aveva fino a quel momento tenuto nel cassetto per non dare l’ennesima soddisfazione all’odiata Virgin. Oldfield riprende nella sua totalità (e quindi nel pieno rispetto della sua struttura) il primo Tubular Bells, cambiandone però opportunamente i temi melodici, in modo tale da creare un disco che contemporaneamente dà all’ascoltatore la sensazione di ascoltare sia un nuovo disco sia il primo Tubular Bells risuonato con strumenti moderni. Dell’originale, opportunamente e magistralmente rivisitati, ritroviamo l’ipnotica intro di pianoforte (“The Sentinel“), il maestro di cerimonie che presenta gli strumenti (“The Bell“), il lento riavvio dell’ipotetica seconda parte della suite (“Weightless“, forse il brano più riuscito del disco assieme a “Tattoo“), l’ingresso della batteria e la parte vocale dell’Uomo Delle Caverne (“Altered State“) e così via.
Dichiara Mike: “Mi piacerebbe vedere qualcuno suonare in modo diverso da tutti gli altri, non utilizzando la scala blues, non scivolare nel jazz, ma fare qualcosa di nuovo partendo dal nulla.”
Sulla scia del successo di vendite di Tubular Bells II, la Virgin pubblica la raccolta Elements in versione CD singolo oppure nel box da 4 CD. Intanto Oldfield sforna un nuovo lavoro, The songs of the distant Earth (1995), ispirato al romanzo di Arthur C. Clarke “Racconti Di Terre Lontane”, di nuovo totalmente strumentale (composto da brani di breve lunghezza fusi tra loro in modo da formare una lunga suite). E’ un ritorno al miglior Oldfield nonché il primo album della storia a includere una traccia CD-Rom interattiva. Ascoltate questo disco al buio e in cuffia: Oldfield, grazie a un eccellente lavoro di ricerca sonora incentrato su rarefatte atmosfere sintetiche e su ritmiche elettroniche campionate, vi immergerà in un fantastico mondo futuristico, dove l’unica vostra guida sarà la sua chitarra, che sovente si innalza sulle stratificazioni costruite dai synth. Fatevi catturare dal magnetico inizio di “Let There Be Light“, avvolgetevi nel magico bozzolo di “Hibernaculum“, esplorate il “Tubular World“, e soprattutto ignorate chi bolla quest’album come banale new-age: costui ignora che fare musica significa soprattutto creare emozioni, e qui Oldfield riesce alla perfezione nell’intento, proprio perché è un disco che arriva direttamente al cuore dell’ascoltatore, senza volerlo stupire con virtuosismi o armonie iper-ricercate.
Il successivo Voyager (1996) è un album interlocutorio, interamente ispirato alla musica celtica e (in minima parte) a quella folk spagnola – Oldfield si è da poco trasferito ad Ibiza -, con solo quattro pezzi originali (i restanti sei sono rielaborazioni di pezzi tradizionali). La monotematicità è contemporaneamente il pregio e il difetto di quest’album: pregio perché è indubbio il fascino di queste melodie senza tempo, difetto perché il disco è troppo ripetitivo e lascia poco spazio alle sorprese. Tra i pezzi di Oldfield, il migliore è senza dubbio “Voyager“, con un ottimo tappeto percussivo che ricorda vagamente quelli di Incantations, discreti ma niente di particolare sono “Celtic Rain” e “Wild Goose Flaps Its Wings“, mentre troppo pretenzioso e monotono risulta essere il lungo brano finale “Mont St. Michel“, con tanto di orchestra. Tra gli altri brani, i più riusciti sono l’iniziale “The Song Of The Sun, She Moves Through The Fair” (a cui si sono ispirati anche i Simple Minds per la loro “Belfast Child”) e soprattutto la magnifica “Women Of Ireland“, divenuta celebre in Italia per essere la colonna sonora di uno spot della Peroni.
Nel 1997 esce la raccolta XXV, che propone in anteprima uno stralcio dell’imminente terza parte della saga di Tubular Bells. Nel frattempo Oldfield, durante la sua permanenza in Spagna (e con la complicità della sua giovane nuova compagna), conduce una vita piuttosto sregolata: frequenta i club più esclusivi e non si perde un rave-party, finché l’abuso di alcool ed ecstasy non lo riducono in condizioni psico-fisiche precarie. Dopo l’ennesima disavventura, un incidente automobilistico che gli comporta la sospensione della patente per un anno, abbandona Ibiza, fermamente deciso a non metterci più piede. L’esperienza spagnola ha comunque lasciato il segno in buona parte delle atmosfere del suo nuovo album.
Tubular Bells III (1998), terzo capitolo della saga, è un album privo di tempi morti, dove Oldfield ha commesso un unico grosso errore: la scelta del titolo. Certo, non mancano i riferimenti ai due Tubular Bells precedenti, ma è palese il tentativo di sfruttare l’appeal del nome per vendere qualche copia in più, mossa che per Oldfield è stata abbastanza controproducente, in quanto buona parte della critica gli si è schierata contro a priori, senza valutare l’effettivo valore musicale del disco. Il pezzo di apertura è “The Source Of Secrets“, terza rilettura – dopo “The Sentinel” – dello storico tema di apertura del primo Tubular Bells, innestata su una pompatissima base ritmica (e qui sicuramente le notti di Ibiza hanno avuto la loro influenza). Un attimo di rilassamento con “The Watchful Eye“, e le ritmiche elettroniche ritornano, sebbene più pacate, in “Jewel In The Crown“, dove è la chitarra a farla da padrone. Chitarra protagonista anche nella potentissima e metallica “Outcast” e nel flamenco di “Serpent Dream“; chiude un’ipotetica prima parte dell’opera “The Inner Child“, che ricorda molto alcune cose di Ennio Morricone. Si riparte con la pietra dello scandalo: “Man In The Rain“, pericolosamente simile a “Moonlight Shadow”. Che dire? Le somiglianze ci sono ma, per come la vedo io, Tubular Bells II” sta a Tubular Bells come “Man In The Rain” sta a “Moonlight Shadow”: una buona rilettura dell’originale.
Le influenze celtiche di “Voyager” ritornano nella trascinante “The Top Of The Morning“, e si tira un po’ il fiato con “Moonwatch“, prima della potente conclusione dell’opera con “Secrets“, che riprende il tema iniziale, e “Far Above The Clouds“, che si sovrappone sinuosamente al pezzo precedente e presenta le mitiche Campane Tubolari a scandire gli ultimi istanti dell’album. Imperativo: ascoltare senza pregiudizi.
A tre anni di distanza da Voyager, Oldfield ripete l’esperimento dell’album “a tema” con Guitars (1999). Il nome del disco è autoesplicativo riguardo ai suoi contenuti: dieci tracce interamente strumentali, dove la chitarra la fa da padrone (ma limitandosi a un ruolo di rifinitura, non aspettatevi assolutamente virtuosismi) e le rare note di synth o sampler sono state generate da chitarre Midi. Come era già successo per Voyager, il disco risulta piacevole ma, in generale, non decolla; i suoi momenti migliori li troviamo nei pezzi più atmosferici e malinconici come la introduttiva “Muse” o “Embers“, mentre le sferzate elettriche di brani come, ad esempio, “Cochise” o “Out Of Sight” non colpiscono nel segno in quanto prive di un significativo sostegno ritmico. Un disco abbastanza trascurabile, in definitiva.
Dichiarazione di Mike: “Non ascolto i miei vecchi album. Ho troppa paura. Penso sempre solo al prossimo album. Arriva poi il momento in cui ho finito un album, e dico: ‘Ecco fatto’.”
A soli sei mesi dal precedente Guitars, con The Millennium Bell (1999), Oldfield sforna il quarto disco a presentare nel titolo la sacra parola “bell”, che rappresenta una celebrazione in musica dei momenti salienti del millennio che sta per finire. Album globalmente non riuscito, ha come principali difetti una eccessiva frammentarietà stilistica, e un avvio un po’ lento: “Peace On Earth” e “Santa Maria” sono dei pezzi pseudo-spiritual davvero privi di mordente, “Sunlight Shining Through Cloud” e “Pacha Mama” scivolano via senza lasciare troppe tracce. Le cose migliorano di molto col trittico seguente, che propone un’alternanza di stili molto singolare. Si parte con l’azzeccata “The Doge’s Palace“, ovvero il Rondò Veneziano in versione 2000; seguono le delicate atmosfere orchestrali di “Lake Constance” e la strana ma efficace “Mastermind“. Ritornano le atmosfere orchestrali (con stavolta il pianoforte a farla da padrone) in “Broad Sunlit Uplands“, mentre con “Liberation” sulle prime sembra di ascoltare Enya ma poi ci pensano un efficace tappeto percussivo e (soprattutto) una magica chitarra ad imprimere il marchio Oldfield sul pezzo. Penultimo brano è la marcia trionfale di “Amber Light“, mentre a chiudere le ostilità ci pensa la title-track, collage di vari brani del disco inframezzati da parti strumentali su un’inusuale (ma efficace) ritmica dance.
Oldfield inaugura il nuovo millennio con Tr3s Lunas (2002), un doppio CD (l’album e un videogame in 3D), che può essere concettualmente considerato come il successore di The Songs Of Distant Earth: stesse semplici ma efficaci melodie, stesso clima evocativo, prevalenza schiacciante della componente strumentale rispetto a quella vocale. Caratteristica comune a quasi tutti i pezzi è l’uso di ritmiche ipnotiche (tipiche della musica chill-out, una corrente musicale moderna di cui Oldfield è considerato uno dei precursori) che, unite alle sapienti linee di synth e di chitarra, creano rilassanti atmosfere. Il disco è qualitativamente piuttosto omogeneo (leggermente inferiori rispetto al resto sono il singolo cantato “To Be Free” e “Thou Art In Heaven“), propone melodie orecchiabilissime ma non stucchevoli e ha i suoi momenti migliori nel delicato affresco pianistico di “Daydream“, in “Return To The Origin“, con degli eccezionali ricami d’organo, in “Turtle Island” e nella title-track, in cui la chitarra acustica detta legge. La versione completa e gratuita del gioco è reperibile su Tubular.net.
Nel 2003 esce Tubular Bells 2003, un nuova registrazione dell’originale Tubular Bells, su CD e DVD-audio. Ciò si è reso necessario per sistemare alcune imperfezioni nella versione originale, causate dalle limitazioni tecnologiche esistenti a quel tempo, ma anche al poco tempo allora disponibile durante le registrazioni. Con questa uscita, Oldfield, ha voluto anche ricordare il 30° anniversario di Tubular Bells ed inoltre il proprio 50° compleanno.
Il 12 aprile 2004 Oldfield lancia il suo nuovo progetto di Realtà Virtuale, noto col nome Maestro, vale a dire un videogioco che contiene musiche tratte dall’album Tubular Bells 2003 e alcune melodie inedite. La versione completa e gratuita del gioco è reperibile su Tubular.net.
Il 26 Settembre 2005 esce l’album Light + Shade, un doppio album che rappresenta i due lati della sua personalità musicale.
Nel CD 1 intitolato “Light” troviamo un Mike Oldfield più progressivo, indirizzato agli ambienti e sonorità più “trance”, temi più melodici, effetti vocali e sperimenti strumentali più ritmati.
Il CD 2, intitolato “Shade”, è qualcosa di più oscuro, il contrappunto malinconico, un disco più di atmosfera, più vicino alla “chill-out”.
“Light + Shade” è un miscuglio di semplicità e complessità. Mike è senza dubbio un personaggio particolare che non si considera un “normale” musicista, ma “un tecnico che converte le idee in suono”. Un personaggio inquieto ed innovatore che ha incorporato nei vari temi dell’album il programma interattivo U-Myx.
“Light + Shade” è il primo album in assoluto che include più brani in formato U-MYX, formato di file musicale interattivo che permette ai fans di creare brani propri e missaggi personalizzati usando canzoni di vari artisti, senza aver bisogno di conoscenze specialistiche o di equipaggiamenti sofisticati.
Le quattro canzoni in formato U-Myx incluse nell’album sono: Angelique, Our Father, Slipstream e Quicksilver.
Eccoci così arrivati al 17 marzo 2008, quando Oldfield decide di abbandonare il rock e il pop per esplorare altri universi musicali. Il suo nuovo lavoro è, infatti, un disco di musica classica, il primo di questo genere per lui. In tutto 14 brani – divisi in due parti – per orchestra, dal titolo “Music of the Spheres“, con alcuni interventi cantati dal soprano Hayley Westenra e dal coro. In più, il piano forte è suonato dal pianista Lang Lang e la chitarra classica dallo stesso Oldfield. Composto e prodotto integralmente dall’artista, l’adattamento dell’opera, per poter essere suonata da un’orchestra, è stato invece eseguito da Karl Jenkins.
Già il titolo “Music Of The Spheres” è di per sé evocativo. Come Oldfield afferma, ogni cosa in questo mondo ha una sua vibrazione interna. Un suono unico per ogni cosa, vivente o non vivente, che crea una musica che nessuno può sentire. Lo stesso potrebbe estendersi anche ai pianeti, al sistema solare o ad un’intera galassia. “Musica Universalis” è un’antica teoria secondo la quale ogni corpo celeste (sole, luna, pianeti, stelle) ha una sua musica interna non udibile dall’orecchio umano. Un richiamo a Pitagora secondo il quale la musica é in relazione con il movimento del sole, della luna e dei pianeti. “Music Of The Spheres” è l’interpretazione di Oldfield di questa teoria. Un album epico che trasmette il senso della vastità e della meraviglia dell’universo, ma anche la sua potenza ed energia. Emozionante, a tratti triste, tenero o pieno di serenità e gioia, l’album diventa il mezzo ideale per un meraviglioso viaggio in una dimensione eterea e fantastica.
E’ un disco da ascoltare più volte per apprezzarlo al meglio, soprattutto per quelli che, abituati al rock e al pop, difficilmente ascoltano musica classica, ma che certamente verranno ripagati dalla bellezza della sua musica.
Con “Harbinger“, l’inizio dell’album viene affidato a reminescenze tubolari, con un Mike ancorato al ricordo di un passato che non può tornare. Ma il bello arriva con “Animus” che ti ferisce senza poterti difendere, solenne e imponente, seguito da “Silhouette” che invece si compiace nel raccontarti un mondo diverso, migliore.
Mike riesce ancora una volta a trasmetterci le sue emozioni, dimostrando di avere ancora voglia di rovistare nel proprio cuore in cerca di ispirazione, prima con “Shabda” facendoci immergere nel suono dell’orchestra che rincorre una chitarra acustica degna di una nuova giovenezza, e poi con “The Tempest” mostrandoci i sinfonismi di un orchestra in grande forma.
“On my heart“, brano che chiude la prima parte dell’album, è un pugno allo stomaco, adoperando le linee vocali di un tempo. Immensa.
Nella seconda parte, “Aurora“, “Prophecy” e in seguito “Harmonia mundi” sono tre grandi brani che non si scostano molto dalla linea ormai disegnata nella prima parte dell’album mantenendo alta la media generale.
In finale, “Musica Universalis” colpisce per la sua maestosità, iniziando con suoni tenui, un racconto di un viaggio in un crescendo di ritmo e intensità che culmina in un’orgia di suoni e strumenti, espressione dell’immensa forza e dell’infinità dell’universo.
Durante la composizione dell’album Oldfield dichiara: “Sarà tutto un lavoro per orchestra, tranne che per la chitarra classica e per il pianoforte. Suonerò io questi due strumenti [ma poi decise diversamente]… è più ispirato alla festa di Halloween [antica festa risalente periodo avanti Cristo], che ai film horror di Hollywood… Il vantaggio di tutto ciò è che in finale avremo una partitura orchestrale, che chiunque al mondo sarà in grado di procurare e suonare“.
Scaduto il contratto-trappola che da 30 anni legava Mike alla Virgin e con il passaggio dell’intero catalogo alla Mercury (Universal), si è programmata la ristampa completa della discografia di Mike Oldfield e si è deciso di iniziare con Tubular Bells versione 2009, disponibile dal 8 giugno 2009 come “Deluxe Edition” (2CD e 1 DVD), “Ultimate Edition” (3CD, 1 DVD, l’album in vinile oltre a un bel libro), “2CD Edition” e “Vinyl Edition“, oltre a due versioni digitali.
Tubular Bells nell’arco dei suoi quasi 40 anni di vita è rinato sotto varie edizioni e commemorazioni: l’edizione originale del ’73, la versione orchestrale del ’75, la versione quadrifonica uscita nel ’76, quella su CD con vari remastered, e poi in super audio, in HDCD, la riedizione completamente risuonata del 2003 rilasciata anche su DVD Audio, ma Mike ha deciso di mettere mano per l’ultima volta al suo capolavoro.
Avendo ottenuto finalmente la proprietà dei nastri originali, dalle Bahamas, dove attualmente ha la residenza, Mike ha deciso di ripulire ogni traccia dell’opera, smontare la struttura dei brani e poi rimettere tutto insieme come se fosse la prima volta.
Aveva dichiarato sempre che le teconologie del ’73 non gli avevano permesso di esprimersi come avrebbe voluto, molti strumenti risultando slegati dal corpo della melodia e avendo problemi di sincronia. Ora tutto questo è sparito e Tubular Bells si presenta come la magistrale suite musicale di quasi un’ora in cui la genialità dell’autore viene ancora una volta confermata: il fruscio di sottofondo è scomparso, gli strumenti suonano freschi e brillanti, il suono è pulito e ciò che prima sembrava un rumore di sottofondo si è rivelato essere un strato musicale di sintetizzatori e bassi che, se prima si intuivano, ora appaiono in tutto il loro splendore.
In questo periodo Mike Oldfield dichiara riferendosi al suo debutto: “Su Tubular Bells tutto è stato fatto al primo colpo – è stato bello, molto spontaneo. Ho avuto tanto tempo per prepararlo e ho avuto solo una piccola possibilità di realizzarlo. Ora, ascoltandolo, trovo che ha una bella e spontanea energia. Ha ovviamente degli errori, che avrei potuto facilmente eliminare, ma alla fine ho deciso di mantenerli.”
Una settimana prima della pubblicazione del nuovo Tubular Bells, la Mercury aveva deciso di pubblicare “The Collection“, il 31 maggio 2009, una passeggiata retrospettiva attraverso il pittoresco passato musicale di Mike Oldfield. Divisa in due dischi – il primo concentrato interamente su Tubular Bells – The Collection è uno sguardo su tutta l’opera di Oldfield, dalle sue radici sperimentali, alle incursioni contemporanee nella musica classica ed orchestrale, che non lascia angoli inesplorati e che si autodefinisce come essenziale per la collezione di dischi dei principianti di Oldfield, ma anche per i collezionisti più incalliti.
Con presenze di rilievo come Ommadawn, Five Miles Out e QE2, The Collection può essere recepita come un autentico documento che testimonia e spiega l’evoluzione di Oldfield, la sua maturazione ed accrescimento come artista. Esteso su più di trent’anni e forte dal costante sostegno della tecnologia moderna, il viaggio musicale proposto è davvero affascinante.
In virtù al piano di ristampa dell’intera discografia di Mike Oldfield, la Mercury ha pubblicato il 7 giugno 2010 due versioni remissate, approvate e autorizzate da Mike stesso e rimasterizzate: Hergest Ridge e Ommadawn.
Le due nuove pubblicazioni contengono le versioni 2010 delle registrazioni originali, rimasterizzate per un pubblico moderno, ma anche inedite versioni demo e missaggi originali, bonus track accuratamente selezionati e filmati su DVD ad accompagnare brani specifici. Le edizioni disponibili per i due album sono le seguenti: Deluxe 2CD & DVD Edition, Single Disc Edition, Back To Black Vinyl Edition, Strictly Limited Edition (250 copie contenenti Deluxe 2CD & DVD Set, Back to Black Vinyl, copertina del LP firmata da Mike, Demo originali e libri) e le versioni digitali scaricabili on-line.
Da segnalare anche la nuova copertina dell’album Hergest Ridge. Oldfield non è mai stato contento dall’immagine originale dell’album: una foto fatta dal suo aliante sopra Hergest Ridge (sua residenza all’epoca) alla quale venne applicato l’effetto Lente fisheye (ad occhio di pesce). Questa volta la squadra di Oldfield, proponendosi una riprogettazione, ha usato un’immagine ripresa da Google Earth di Hergest Ridge e la campagna circostante per collegare per sempre la zona alla musica – idea ulteriormente rafforzata dal libretto dell’album, “Girando per Hergest Ridge – Una guida per gli escursionisti e la storia dietro la musica che ha ispirato“.
In questo periodo Mike, sempre vagando in barca insieme alla famiglia per le mari caraibiche, fa dichiarazioni del tipo: “Non mi sento un musicista. Non so… creo suoni, che sono l’espressione delle mie emozioni.”, oppure “So di essere molto instabile, e probabilmente lo sarò sempre, il punto è che mi sono accettato per come sono.” e “Fin da quando ero molto giovane la musica è stata molto importante per me. Ero felice quando lavoravo. Con l’età però la musica sta diventando sempre meno importante per me, e sto imparando, credo, di godermi la vita anche senza la musica. Sono stato veramente un fanatico della musica per la maggior parte della mia vita.”
Dopo aver messo la sua griffe su un disco, Tubular Beats (2013), che opera una propria interpretazione del suo repertorio storico a cura del Re delle sale lounge di Ibiza, York (Torsten Stenzel), arriva sotto l’etichetta Virgin EMI, il nuovo “rock album” Man On The Rocks.
Uscito il 3 marzo 2014, Man on the Rocks è stato prodotto da Stephen Lipson insieme ad Oldfield stesso. Alla realizzazione dell’album, oltre ad Oldfield alla chitarra, partecipano il bassista Leland Sklar, il batterista John Robinson, il tastierista Matt Rollings, il chitarrista Michael Thompson e il cantante Luke Spiller (The Struts). Le basi sono state registrate nel mese di giugno 2013, nello Studio D di Village Studios, Los Angeles, ed Oldfield ha partecipato a queste sessioni tramite Skype. Il resto delle parti dell’album sono state registrate nello studio di Oldfield, nella sua casa alle Bahamas.
L’album segna il ritorno di Mike Oldfield all’etichetta Virgin (dopo aver lasciato la Virgin Records nel 1990), creata dalla fusione di Mercury Records UK e Virgin Records dopo l’acquisto di Universal Music di EMI.
Oltre alla musica, gli interessi di Mike Oldfield includono l’aviazione (lui è un pilota d’aereo qualificato e di elicottero), gli aeromodellini, le moto, la fantascienza (è appassionato di Star Trek) e le barche (possiede uno yacht da 56 piedi alle Bahamas).
Mike è stato onorato avendo un pianeta minore (un asteroide) chiamato con il suo nome. Diverso dalle organizzazioni commerciali che vendono i nomi delle stelle, la denominazione dei pianeti minori è controllata da una commissione dell’Unione Internazionale Astronomica, il Corpo Governante per Astronomi Professionali. L’oggetto in questione è (5656) Oldfield. Gareth Williams, oltre ad essere un grande fan di Oldfield, è stato colui che suggerì il nome. Garet fece l’identificazione tra 1920 osservazioni originali fatte da Edward Bowell dal 1978 al 1981.
Mike compose la musica per il film “Lawrence Moore” prodotto per il Consiglio dell’Arte britannico nel 1978. La colonna sonora “Reflection” si riferisce alla geometria sacra di Stonehenge, ai labirinti inglesi e alle cose riflessive. È qui che “Portsmouth” fece il suo esordio! Mike ha riscritto alcuni pezzi del suo “Ommadawn” e “Hergest Ridge” per “Lawrence Moore” e ne ha composti di nuovi. Il film uscì nelle sale inglesi e americane nel 1979.
di Pasquale Renna e Giuliano Plenevici
Per una biografia completa si consiglia la lettura del libro “Changeling“, l’autobiografia scritta da Mike Oldfield nel 2007 (in inglese).